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Interviste

ESCLUSIVA Clive Riche, La Casa del Sabba e… | “C’è una sola cosa che non rifarei…”

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Giuseppe D'Amato

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con il compositore britannico Clive Riche, che ci ha raccontato moltissime cose su di sé e sulla sua musica.

Clive Riche è un attore e musicista britannico classe 1952 che vanta un curriculum artistico davvero ricchissimo. Lo abbiamo incontrato e abbiamo approfittato per farcelo raccontare direttamente da lui.

Clive Riche (Instagram)

Ciao Clive. Ti ricordi come è iniziata la tua avventura nella musica?

E’ cominciato tutto da bambino, quando vivevo a Leeds, nel Regno Unito. Provengo da una famiglia molto povera: mio padre lavorava nelle miniere di carbone e poi in una fabbrica di mobili, ma amava ascoltare il jazz e ogni domenica suonava il piano. C’era una cultura del folk “nobile”, così mi ha insegnato a suonare la batteria e mi ha fatto conoscere tutti i suoi eroi, come Fats Waller, Bing Crosby, Louis Armstrong, Frankie Vaughan e soprattutto Al Jolson, che oltretutto è un nostro lontano parente originario della Russia.

Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente influenzato?

Devo ammettere che ce ne sono moltissimi per ogni epoca, personalmente credo però che in quanto a classe, eccellenza e significato nulla possa battere il jazz degli anni ’20, ’30 e ’40. Mi vengono in mente proprio Bing Crosby, che ritengo il numero uno in assoluto, ma anche Dean Martin, Billie Holiday, Tony Scott, Frank Sinatra, Tony Bennett e Sammy Davies Junior. Poi sono arrivati i Beatles, quindi il movimento hippie e alcuni festival leggendari come Woodstock, l’isola di Wight e i Bath Blues. Passavo serate intere con la mia ragazza sul divano ad ascoltare Leonard Cohen e il pop-folk britannico, ad esempio Steeleye Span e Fairport Convention. Per l’Inghilterra quello fu un periodo meraviglioso ed irripetibile, dopo i ’70 invece iniziai a dedicarmi al calypso, un genere afroamericano molto popolare nelle Antille. Ancora adesso mi meraviglia l’energia che riusciva a sprigionare gente come Mighty Sparrow e Harry Belafonte. Oggi mi piacciono i Coldplay e Robbie Williams, sul palco è un fenomeno.

Quale motivo ti ha spinto a trasferirti negli Stati Uniti?

Sono andato lì per vivere nelle comunità spirituali di Los Angeles e del Colorado, dove i ritmi di vita sono scanditi dalla percezione e dalla gestione dei campi energetici. Essi sono in grado di modellare le nostre coscienze e le attività quotidiane, attraverso l’espressione del vero “tono” possiamo influenzare il mondo circostante e rimetterlo in armonia con il Disegno Divino, ma dobbiamo recuperare acqua, terra ed eliminare la negatività. L’arte serve per la guarigione. Ancora oggi considero quell’esperienza di fondamentale importanza per la mia visione della vita e della musica: moltissime celebrità sono venute a trovarci al Sunrise Ranch di Loveland, è lì che ho conosciuto Johnny Cash. Mi regalò un amplificatore che però non funziona più. In America ovunque ti giri trovi stimoli creativi, basta guardare Ralph Stanley dei Clinch Mountain Boys, Elvis Presley, Emmylou Harris o Dolly Parton. 

Hai vissuto in varie parti del mondo. Dove ti sei trovato meglio per comporre le tue opere? 

Se devo essere onesto in Italia, è un posto quieto e rilassante, non a caso il mio miglior lavoro l’ho scritto sul Lago di Bracciano, vicino Roma. Gli studi di registrazione che avete sono tutti di altissimo livello, per accorgersene basta poggiare la puntina su un disco di Lucio Dalla. Ho incontrato musicisti “top class”, come Ennio Morricone, Renzo Arbore, Lino Patruno, Carlo Siliotto, Mauro Carpi e Antonella Ruggiero.

Clive Riche (Instagram)

Quale canzone di un altro artista ti sarebbe piaciuto scrivere?

“Love Is Here To Stay” di George e Ira Gershwin. Ogni nota è perfetta, il mio grande amico e musicista Enrico Cresci l’ha suonata al mio matrimonio.

Quale musicista ti somiglia di più?

Quando suoni indossi moltissime maschere differenti. A volte mi rivedo in Don Williams, altre in Bob Dylan, Leonard Cohen o John Lennon.

Se potessi fare un salto indietro nel tempo, cosa non rifaresti?

Il mio percorso è stato tortuoso e difficile, ma sono molto grato per come è andata. Mi piacerebbe però riscrivere la sceneggiatura e semplificare le cose. Non perderei troppo tempo a Giurisprudenza, che avevo iniziato a frequentare a Londra per diventare avvocato, e farei subito il ballerino o il musicista.  

E che cosa invece ti rende orgoglioso?

Due miei album, “Your Father Is Your Son” e “Angel Not For Sale”. 

Qual è la differenza tra scrivere musica in senso tradizionale e colonne sonore per il cinema?

Le colonne sonore servono per compiacere il regista, ma le canzoni sono tue. Mi occupo anche di musica ambient che fa da sfondo, monaci che cantano etc.. Nelle comunità abbiamo tenuto sessioni magiche, indimenticabili: il canto è uno strumento meraviglioso, il potere curativo delle vibrazioni aspetta noi per riscoprire ciò che già si conosceva nell’Antico Egitto. Lo sanno persino ad Hollywood.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Una casa in campagna dove avvicinare aria, acqua e cibo e renderli sacri, ne stiamo ricostruendo una ad Oriolo Romano. Artisticamente parlando ho sempre in tasca uno spettacolo chiamato “Al Capone Jazz Show”, che abbiamo già portato negli ospedali e nelle prigioni. E poi c’è “The Good Song Tree”, l’albero delle buone canzoni dai cui rami pendono “dodici frutti”. Ciascuno di essi è un brano ed ha uno spirito di speranza e armonia. Insieme ad un ente stiamo cercando di finanziarlo, non vedo l’ora che si realizzi.

Giuseppe D'Amato

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Giuseppe D'Amato

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