Mio padre moriva sedici anni fa giusti.
Nel 2003 ho composto per lui Patapàn
e spesso compare in qualche passaggio
di queste pagine sparse.
Oggi, se posso, vorrei ricordarlo
anche attraverso una testimonianza
che ho scritto in passato
per un caro amico che porta il suo nome.
Mio padre si chiamava Riccardo
ma tutti lo chiamavano Nello
e io solo lo chiamavo papà.C’era una luce insolita quel giorno.
Avevamo passato da poco
il confine del secolo
e con quel Duemila seduto di fianco
stavamo tutti lì in vigile attesa
come chi aspetta grandi novità.
E la luce in effetti appariva nuova e leggera
trasparente come un’aria più fina.
Una sottile filigrana biondochiaro
come un riflesso di olio puro e sincero.
Viva tra quelle file ordinate e pazienti di ulivi
carichi di verdi promesse.
Viva come l’assenza di mio padre
che se n’era volato via da qualche giorno.
Con lui andavo, già grande
ma con l’impegno e la felicità di un bambino,
a raccogliere i frutti del nostro piccolo uliveto
ai Castelli Romani.
A lui pensavo, salendo verso Gioia del Colle.
L’incontro si sarebbe tenuto
a Castel del Monte.
Una riunione fra le tante di un’iniziativa
ribattezzata Viaggiatori intorno al fuoco
durante la quale si testimoniavano
storie di vita
prima dei concerti del tour
“Il viaggio – sulla coda del tempo”
nelle arene coperte di tutta l’Italia.
Sulla strada lessi i profili dei partecipanti
per mandarli a memoria
e prepararmi il meglio possibile
e l’occhio mi cadde su quel nome
don Riccardo.
Riccardo come papà.
Qualche minuto più tardi
nel meraviglioso cortile quadrato
me lo presentarono
e dopo qualche altro minuto
io lo presentai al pubblico dei convenuti.
Sull’elenco degli ospiti era l’ultimo scritto.
Don Riccardo Agresti
sacerdote ad Andria, rione Camaggio.
Sotto mi avevano aggiunto a penna:
un prete di frontiera.
Frontiera, riflettevo, vuol dire tante cose.
Rischio, pericolo, mistero, audacia,
avamposto, periferia,speranza, sogno,
lontananza, fuga, fuorilegge, sentinelle,
posti di blocco, sconfinati orizzonti,
smarrimento, redenzione.
E nel suono antico e calmo
di quelle pietre medievali
rimbalzavano parole e pensieri
scambiandosi di ruolo e di senso.
E mentre don Riccardo raccontava
un po’ del suo percorso nel mondo,
imparavo a conoscerlo.
Malgrado i suoi superiori
gli avessero indicato e molto raccomandato
di far solamente il proprio lavoro
– confessare e dir messa –
Don Riccardo aveva spesso anche altri slanci.
In mezzo a una realtà sociale piuttosto difficile
s’impegnava come poteva
verso le esistenze vere del prossimo.
Quello più marginale, più piccolo e innocente,
più povero,più disagiato, più indefinito,
più evitato, più debole.
Ma frontiera non era soltanto coraggio.
Era entusiasmo. Passione.
Professione di fede.
Don Riccardo del prete faceva
non solo il lavoro
ma più di tutto il mestiere.
Servire gli altri per servire agli altri.
Senza calcolo, senza risparmio,
senza fatica o stanchezza.
E mentre parlava,
avvertivo la sua smania contagiosa
di provvedere e combinare e fabbricare
e dare e fare.
I fatti laddove c’erano parecchi misfatti,
le missioni dove esistevano troppe omissioni.
Il riscatto dall’eterno ricatto di chi è più forte,
potente e spietato.
Da un po’ inseguiva un progetto.
Un oratorio da costruire nella parrocchia
della Santissima Addolorata alle Croci.
Mi chiese di dargli un supporto, un aiuto.
Rammentai il mio oratorio di tanti anni addietro
ai bordi di Roma,
Centocelle, San Felice da Cantalice.
La mia frontiera di ragazzino occhialuto,
ultimo spazio di civiltà.
E ancor prima di rispondergli sì
mi aveva già coinvolto
nella quasi impossibile raccolta
di soldi e di idee.
E alla fine, con una tenacia ammirevole
un’intraprendenza un po’ visionaria
un’opera assidua e costante,
mattone dopo mattone, ce l’ha fatta.
E una sala ha voluto dedicarla a mio padre.
Riccardo come lui.
Riccardo che, come papà mi narrava
con un pizzico di fierezza,
significa audace e, per di più, valoroso.
Come quel famoso Cuor di Leone.
Un cuore capace ovverosia capiente
con tanto spazio al suo interno
ma pure abile, idoneo, bravo a fare qualcosa.
Perché a fare del bene
ci riescono in tanti
ma è molto più duro volere anche bene
a chi del bene si fa.
Caro donRic
da quella volta mi hai messo dentro
alcune altre delle tue imprese
e spesso abbiamo camminato accanto
sullo stesso sentiero
come se in quel pomeriggio a Castel del Monte
fosse nato un tacito patto tra cavalieri
armati di ideali e di aneliti
e scudieri di buona volontà e tanta voglia.
C’era quella luce soffice e così familiare
delle ore di laboriosi silenzi
di mio padre e di me
appollaiati sui tronchi nodosi
a frugare tra i rami e rubar loro
quei tondi miracoli di umili olive.
Quella stessa luce di quando
ci siamo conosciuti tu ed io.
E da allora a oggi
non abbiamo più smesso di farlo.
Perché il mestiere di prete e di uomo
il comune mestiere di vivere
non si finisce mai di imparare.
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